giovedì 26 gennaio 2012

Amritapuri Ashram.

Dove ero rimasto? Dopo essere sbarcato dal battello su un porticciolo di recente costruzione ho preso un momento per osservare le alte strutture dell'Ashram Amritapuri. Immagino che per gli indiani sia davvero stupefacente, palazzi alti 15-20 piani, tinteggiati di fresco con le sfumature del tramonto, stretti tra un largo canale delle Backwaters e il Mar d'Arabia. Insieme a me aveva guadagnato terra una giovane inglese, April, che avevo notato subito a Kollam salendo sullo scalcinato barcone, ma con la quale ho scambiato qualche parola e conosciuto il nome solo durante l'attraversamento del ponte che collega la terra ferma al lembo su cui si ergono i palazzoni. Nonostante fosse cambiato molto dall'ultima volta che ci sono stato, tredici anni prima, ricordavo bene le strutture di base e visto che per lei era la prima volta mi sono preso la piccola soddisfazione di darmi le arie da frequentatore abituale, guidandola verso uno sperduto officietto per il check-in degli occidentali.
Li, insieme ad altri nuovi arrivi ho compilato il modulo per l'accettazione, consegnato il passaporto e ricevuto un cartellino lasciapassare da mostrare per accedere all'edificio dove si trovava la mia stanza, contenente tutte le informazioni per raggiungerla e la combinanzione del rudimentale lucchetto per accedervi. Insieme a me era stato assegnato alla stessa camera un signore alto e biondo da accecare, sulla 50ina, che scoprii quasi subito essere un fisioterapista danese di nome Jens. Abbiamo subito fatto amicizia quando mi ha detto di essere dispiaciuto per me che non avevo avuto la possibilita' di condividere la stanza con la mia fidanzata, o per meglio dire quella che lui credeva che fosse (parlava di April), e una volta chiarito l'equivoco tra il timido imbarazzo di April, per il quale mi sono sentito un poco lusingato, abbiamo parlato animatamente in inglese del nostro viaggio mentre cercavamo di raggiungere la stanza, al settimo piano del palazzo D.

Mi ha piacevolmente colpito la presenza di un ascensore, non me lo sarei aspettato da un luogo in cui si suppone che tutte le azioni quotidiane siano parte della stessa pratica spirituale, basata anche sulla rinuncia delle comodita' e sull'aiuto disinteressato. E' poco austero secondo la mia immaginazione, credo. Comunque, una volta raggiunto il piano ci siamo fatti strada lungo il dedalo di corridoi quasi bui -nonostante fosse da poco passato mezzogiorno- fino alla porta 8002. Dopo aver bussato con delicatezza ci ha aperto Maurizio, un messicano sui quaranta con un espressione tra il beato e il rassegnato, che in un perfetto inglese americano si e' presentato e ci ha dato il benvenuto. Anche lui come noi era un viaggiatore solitario e "backpacker". Per farla breve ci trovavamo li piu' per curiosita', ognuna personale, che per vera devozione ad Amma, al contrario della maggior parte dei numerosissimi occidentali che affollano i piani e le strade coperte di sabbia marina che percorrono l'area dell'Ashram.
La stanza e' molto spartana, le pareti sono macchiate dal tempo e dalle innumerevoli persone che hanno occupato quegli spazi, i letti sono durissimi, nel senso che il materrassino di fibra naturale, racchiuso in un involucro plastico marrone scuro e alto appena 6-8 cm poggia su dei ripiani metallici. Niente rete. L'istinto mi disse alla prima occhiata che la mia schiena ne avrebbe risentito, e ho avuto ragione. Il bagno e' rudimentale, con un ugello per la doccia e un water di quelli misti tazza/turca. Fuori dal bagno c'e' un piccolo lavandino, niente specchi, cosa che mi ha irritato a tal punto che ne ho comprato uno di tasca mia. Vista sul palazzo di fronte, deprimente.
Compreso nel costo della stanza, 200 rupie, ci sono anche tre pasti al giorno all'indiana, cosi' io e Jens decidiamo di avviarci verso la mensa, con orario 20.00-21.00, per sfamarci dopo la giornata frenetica tra bus, treni e battelli. Come mi pareva di ricordare il cibo e' piuttosto semplice, anche meglio, semplicissimo, che consiste in una mestolata di riso scottissimo e molto annacquato, servito con un rapido gesto rotatorio della scodella nel pentolone da un signore indiano che ha tutta l'aria di volersi trovare da un'altra parte, e un po' lo capisco vista la coda kilometrica che a ogni pasto si forma di fronte al pentolone, e da due o tre abbondanti mestolate di verdure poco identificabili, delle tonalita' del giallo e del rosso, ma caratterizzate da una piccantezza e una quantita' di spezie che le prime volte si fa difficolta' a sopportare. Menomale che esistono delle mense per occidentali con cibi piu' appetitosi, e che anche se li si deve pagare sono molto economici. Inutile dire che mi serviro' molto dell'alternativa a pagamento, concedendomi comunque un po' di sano masochismo a cena, perche' in fin dei conti finire il piatto di cibo indiano e' una soddisfazione di cui non mi voglio privare.

Alla prossima per un approfondimento sulla vita nell'Ashram e su Amma.

PS: ecco altri due spot nella variante indiana. Li ho trovati molto carini e ve li propongo.


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